L’Italia non è un Paese per giovani imprenditori: il problema delle competenze
Potenziali startupper italiani diventano Neet o Expat. Ci vorrebbe una Scuola che consenta maggiormente di rafforzare competenze utili alla vita e al lavoro, ma il problema non è solo quello. Per abilitare una crescita sostenuta dalle nuove generazioni bisogna cambiare strategia. Vediamo cosa serve
La Scuola italiana fatica a formare in modo solido e diffuso le competenze che servirebbero al Paese per fare quel salto tecnologico necessario a diventare più competitivo e ad aumentare la qualità del contributo del capitale umano delle nuove generazioni alla crescita. Qui compresi i giovani imprenditori delle startup. I potenziali startupper quindi rischiano di ricadere in altre due categorie: i delusi e arresi Neet (Not in education, employment or training) o quelli che cercano altrove fortuna: gli Expat.
Ma il problema, ovviamente, non è solo la scuola che, anzi, continua a godere di un buon giudizio da parte dei giovani, a differenza di altre istituzioni (come la politica, i sindacati, le banche, i mass media, ecc.).
Squilibrio demografico, gli effetti a venire
L’Italia presenta uno dei maggiori squilibri demografici al mondo nel rapporto tra generazioni più mature e quelle più giovani, ovvero tra i boomers e i millennials. Più nel dettaglio, gli attuali trentenni e dintorni sono ben un terzo in meno rispetto agli attuali cinquantenni e dintorni.Finora non abbiamo percepito la relativamente bassa consistenza nel nostro Paese dei Millennials come un problema per due motivi. Il primo è il fatto che la lunga crisi economica e il persistente scarso investimento in politiche di sviluppo in grado di espandere settori dinamici, innovativi e competitivi hanno tenuto bassa la domanda di occupazione giovanile e accentuato l’emigrazione all’estero. Il secondo motivo è che finora il centro della vita attiva e produttiva del paese è stato presidiato dalle abbondati generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra (o precedentemente).
Questo significa che l’effetto maggiore degli squilibri demografici lo vivremo nei prossimi anni, quando i boomers sposteranno i loro baricentro oltre l’età pensionabile e i millennials si troveranno ad occupare il centro della vita attiva del Paese. Si ridurrà quindi drasticamente la popolazione nelle età in cui maggiormente si produce ricchezza mentre peserà sempre di più quella nella fase della vita in cui si assorbe ricchezza. La capacità di continuare a crescere e rendere sostenibile il sistema sociale dipenderà quindi dalla risposta che daremo alla seguente domanda: “Sarà di più quello che i Millennials andranno ad erodere come quantità nelle età centrali lavorative o sarà più l’arricchimento che saranno messi nelle condizioni di portare in termini di qualità?”.
Se la riduzione quantitativa è oramai un dato di fatto, dovuto alle dinamiche negative della natalità passata, sulla qualità abbiamo ancora margini di manovra, ma è anche vero che sinora non siamo andati nella direzione giusta o lo abbiamo fatto troppo timidamente.
Siamo infatti uno dei paesi avanzati che, nell’entrata nel nuovo secolo, si sono rivelati meno in grado di dotare le nuove generazioni di strumenti efficaci per essere attive e vincenti nei processi di trasformazione e sviluppo.