Nel gennaio 1960, poche settimane prima di morire e nel pieno dello slancio creativo, Adriano Olivetti pubblicava la prima edizione di “Città dell’uomo”, il suo volume più celebre destinato a diventare un testamento spirituale. Gli scritti e i discorsi trasmettono ancora intatta e fortissima la passione civile, a tratti mistica, che li ispirò. Ciò che emerge da queste pagine non è un’idea vagheggiata e astratta di convivenza civile, ma la ricerca attiva e inquieta di un’autentica città dell’uomo, di una società fondata sul rispetto dei valori dello spirito, della scienza e degli ideali inalienabili di giustizia e dignità, perseguiti lontano da ogni retorica, rimanendo vicino al nucleo più intimo e insieme universale dell’uomo.
Grazie all’amico Cesare Nisticò, che ce lo ha segnalato, abbiamo deciso di pubblicare questo passo. Il tema è quello del lavoro come valore e bene prezioso a fondamento della società.
La redazione
Ora che ho lavorato anch’io con voi tanti anni, non posso io stesso dimenticare e accettare le differenze sociali che come una situazione da riscattare, una pesante responsabilità densa di doveri.
Talvolta, quando sosto brevemente la sera e dai miei uffici vedo le finestre illuminate degli operai che fanno il doppio turno alle tornerie automatiche, mi vien voglia di sostare, di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza a quei lavoratori attaccati a quelle macchine che io conosco da tanti anni, quando nei primi tempi della mia carriera si discuteva con l’ingegner Camillo se era meglio farle venire da Providence negli Stati Uniti o da Stuttgart in Germania, quando era capo reparto il vecchio Giovanni Rey.
E se dunque essi non mi vedono, mi sia consentito far sapere che, come mio padre li ha amati, così anch’io ho osservato il suo insegnamento. E anche oggi nelle grandi decisioni della fabbrica siamo costretti a ricorrere alla sua memoria, alla sua saggezza, perché in ognuno di noi è fatale una domanda inquietante, un imperativo della coscienza: che cosa avrebbe fatto, che cosa avrebbe suggerito in queste circostanze l’ingegner Camillo?
Tutta la mia vita della mia opera testimoniano anche – io lo spero – la fedeltà a un ammonimento severo che mio padre quando incominciai il mio lavoro ebbe a farmi: «Ricordati» mi disse «che è la disoccupazione la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano a subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro».
E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo. L’uomo primitivo era nudo sulla terra tra i sassi le foreste, gli acquitrini, senza utensili, senza macchina. Il lavoro solo ha trasformato il mondo e siamo alla vigilia di una trasformazione definitiva. Anche quando posso sembrare lontano o assente il mio cuore è con voi e questo è il cifrario nascosto di un’esperienza umana vissuta giorno per giorno.
La fabbrica è grande, i problemi incalzano dentro e di fuori, nei reparti più vicini e in quelli più lontani, negli uffici più disparati.
E bisogna ogni giorno rifiutare la tentazione di risolvere personalmente un caso difficile, per meditare, invece, sulle cose che operano i cambiamenti, che perfezionano e ingrandiscono la nostra azione, che portano innanzi dei metodi risolutivi.
Mi illudo perciò di non avere ignorato le vostre aspirazioni, i vostri desideri, i vostri bisogni. Perché i vostri dolori, le vostre sofferenze, i vostri timori e le vostre speranze sono da sempre le mie; per anni nella preghiera di ogni giorno non ho mai di certo pensato al mio pane quotidiano, ma potevo rivolgere un pensiero appassionato perché mai il lavoro di cui il pane è il simbolo vi venisse a mancare e che questa fabbrica fosse protetta e prima e durante e dopo il tempo di una terribile guerra; in una parola che la Provvidenza aiutasse un comune destino, giacché essa mi aveva assegnato un compito e una precisa responsabilità verso di voi. Ho sempre saputo, fin troppo bene, come errori e debolezze e manchevolezze avrebbero potuto ripercuotersi dolorosamente sopra tutti, come la mia forza e il mio sforzo erano fin troppo legati al vostro avvenire.
Nel corso di tanti anni di lotte, di avversità, in quegli anni tenebrosi del fascismo e della guerra, dell’occupazione e della resistenza che ebbe tra voi i suoi martiri e i suoi eroi eravamo tutti accomunati in una stessa lotta contro uno stesso nemico; ma la fabbrica e la città vissero in salvezza poiché la provvidenza aveva visibilmente steso un suo soffio di protezione. Quella profonda unità vorremmo che si mantenesse oltre ogni divisione.
Nello sconsolato mondo moderno, insidiato dal disordinato contrasto di massicci e spesso accecati interessi, corrotto dalla disumana volontà e vanità del potere, dal dominio dell’uomo sull’uomo, minacciato di perdere il senso e la luce dei valori dello spirito, il posto dei lavoratori è uno, segnato in modo inequivocabile.
Noi crediamo che, sul piano sociale e politico, spetti a voi un compito insostituibile, e di fondamentale importanza. Le classi lavoratrici, più che ogni altro centro sociale, sono i rappresentanti autentici di un insopprimibile valore, la giustizia, e incarnano questo sentimento con slancio talora drammatico e sempre generoso; d’altro lato gli uomini di cultura, gli esperti di ogni attività scientifica e tecnica, esprimono attraverso la loro tenace ricerca, valori ugualmente universali, nell’ordine della verità e della scienza.
Siete voi lavoratori delle fabbriche e dei campi, ingegneri e architetti che, danno vita al mondo moderno, al mondo del lavoro e dell’uomo e della sua città plasmate nella viva realtà gli ideali che ognuno porta nel cuore: armonia, ordine, bellezza, pace; essi bruciano in una fiamma che ci è stata consegnata e che conviene a noi come servitori di Dio alimentare e proteggere. I più umili, i più innocenti, i migliori sanno nel loro presentimento che dal loro sacrificio di oggi, illuminati dalla grazia di Dio, potrà nascere finalmente qualcosa di nuovo e di grande, che le speranze dei nostri figli non andranno deluse, che il seme non fu buttato su un’arida roccia.