Resa pubblica il 25 gennaio 1948, giorno in cui ricorreva la domenica di settuagesima (cioè la settima domenica antecedente a quella di Pasqua) la “Lettera collettiva” dei vescovi dell’Italia meridionale concernente i problemi del Mezzogiorno solo per alcuni aspetti si presenta oggi datata.
Tuttavia, per comprenderne ai giorni nostri i contenuti, lo spirito ed il significato, la “Lettera collettiva” dev’essere contestualizzata rispetto al desolato dopoguerra della fine degli anni ’40 e calata in quel periodo di tempo affatto particolare da tutti i punti di vista.
La circostanza che la “Lettera”, pur trattando temi attuali e drammatici, mai affrontati prima dalla Chiesa del Sud, avesse avuto uno scarso rilievo anche sulla stampa cattolica dell’epoca e che molti vescovi non vollero sottoscriverla o ne ignorarono gli aspetti più urgenti e drammatici, la dice lunga su quanto la mentalità e la cultura cattoliche del tempo fossero lontane dalla consapevolezza che quegli argomenti, riguardando la città dell’uomo e il suo destino terreno, fossero importanti non solo per il popolo delle regioni del Sud, stremato da tanti mali secolari, ma anche per l’identità religiosa e sociale insieme Chiesa meridionale medesima.
Certamente, i tempi non erano ancora maturi per indurre la Chiesa del Sud ad essere presente, con delle posizioni ufficiali e ben chiare, nel campo dell’etica economica e sociale meridionale. Per rendersene conto, basta riflettere un momento sul fatto che il primo vero documento dei vescovi italiani (dei vescovi italiani, non di quelli meridionali….) sulle condizioni di marginalità e sottosviluppo del Mezzogiorno sarebbe stato pubblicato solo nel 1989 (Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà), a distanza di 41 anni dalla “Lettera collettiva” e ad un quarto di secolo dalla conclusione del Concilio Vaticano II.
Alla luce di queste considerazioni, titanico e profetico nel contempo ci appare oggi il tentativo dell’arcivescovo di Reggio Calabria, mons. Antonio Lanza, di cimentarsi nell’impresa di preparare un documento che, coinvolgendo nella sua sottoscrizione gli altri confratelli arcivescovi e vescovi, facesse emergere dalle catacombe, dove stavano sotterrate, le origini e le cause delle miserrime condizioni morali, culturali e civiche delle regioni meridionali. Ed accanto ad esse anche dei possibili rimedi.
Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, lo stato complessivo del Mezzogiorno si presentava, infatti, in modo disastroso sia per via di una insufficiente, spesso inesistente, politica di sviluppo dello Stato liberale prima; che della politica economica del Fascismo dopo; che, a parte le bonifiche effettuate in alcune aree delle regioni meridionali, come nella Piana lametina, per esempio, aveva per venti anni praticamente cancellato la “questione meridionale” dall’ agenda delle sue priorità; che infine della recente guerra mondiale la quale ne aveva aggravato le condizioni, rendendo ancor più desertificate, dal punto di vista umano, morale e materiale, le già desolate aree meridionali.
Di conseguenza, mons. Antonio Lanza pensò che si dovesse intervenire con urgenza su quel cumulo di macerie e, quindi, che ci fosse l’assoluta necessità che le Chiese dell’Italia del Sud facessero sentire la loro voce, in modo forte, sul terreno dei problemi dell’etica civile e sociale e della giustizia.
A parere dell’arcivescovo reggino, ciò era tanto più necessario in quanto si trattava non solo di rivendicare l’intervento dei pubblici poteri per alleviare le precarie condizioni di vita delle genti meridionali, ma altresì di scuotere le coscienze dei cittadini da un atavico torpore che le aveva inchiavardate nell’inattività. Era cioè necessario che i meridionali prendessero in mano il loro destino e fossero sollecitati all’ impegno collettivo per costruire una società rinnovata, più giusta e solidale.
La “Lettera collettiva” inizia analizzando innanzitutto la religiosità dei cristiani meridionali. “La religione – affermano i vescovi – se in molti è davvero cosciente ed operosa adesione alla verità [……..] in altri, è sentimento e tradizione [.……] intristita da forme parassitarie e superstiziose” . Affinché sia autentica, la religiosità popolare dev’essere “munda et immaculata”. Invece, “dobbiamo con amarezza concludere che non di rado ci muoviamo in un mondo cristiano solo d’apparenza…….”
Partendo da questa consapevolezza, i vescovi indicano la causa di tanti mali del Meridione nelle “difficoltà e resistenze che l’attuazione delle norme di giustizia incontra nel Mezzogiorno d’Italia”. E ne denunciano nel seguente modo la situazione prevalente nelle sue contrade: “Non possiamo […….] rimanere indifferenti o inerti di fronte alla persistente miseria di alcune classi del popolo, alla precarietà di vita ed instabilità del bracciantato, al reddito estremamente basso di alcuni lavoratori e coloni, all’evidente ingiustizia di talune forme contrattuali, all’insufficienza di alcune strutture economiche, ai complessi e gravi problemi connessi al persistere del latifondo”.
Dopo di che, la “Lettera” entra nel merito della questione sociale meridionale ed affronta la trattazione della crisi attuale, soffermandosi in successione sui principi e le direttive da tenere presenti per impostare un’azione di risanamento della società e dei mezzi cui fare ricorso per uscirne.
In relazione al primo aspetto, i vescovi ritengono che sebbene la “crisi che attraversiamo sia penosa e torbida […..] nelle sue scaturigini [si tratta] non già di involuzione, ma di maturazione e di crescenza” [indotta da] “aspirazioni che trovano il loro fondamento in una più matura consapevolezza della dignità della persona umana, dell’essenziale uguaglianza tra gli uomini, della preminenza del lavoro, dell’insopprimibile diritto dell’uomo ad attuare, in senso di libera responsabilità, la sua missione e di perfezionare la sua personalità”.
Per risolverla rapidamente, la “Lettera collettiva” propone dei rimedi da adottare sulla base di una serie di principi e direttive di natura etico-sociale che sono ricavabili dal corpus della dottrina sociale che fino ad allora era andata formandosi con la promulgazione dei documenti sociali pontifici: la strumentalità della ricchezza, per cui questa dev’essere finalizzata al perfezionamento dell’uomo; la primitiva destinazione dei beni materiali al servizio di tutti gli uomini; il diritto naturale alla proprietà privata, nella sua duplice funzione individuale e sociale; la creazione di un ordinamento sociale che impedisca la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi; il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli.
Il documento dei vescovi, passa infine a indicare alcuni rimedi attinenti ai “più spinosi ed urgenti problemi delle nostre regioni relativi alla proprietà terriera, ai rapporti contrattuali, alle condizioni dei braccianti e all’ambiente di vita dei lavoratori”.
Com’ è facile constatare, i contenuti della “Lettera” riguardano esclusivamente l’economia del settore primario (agricoltura) ed i connessi problemi di braccianti e contadini. Non sono affrontate le questioni dell’industria e degli operai perché i vescovi si sforzano di muoversi nell’ambito di una visione realistica delle condizioni del Mezzogiorno dove l’industrializzazione era ancora di là da venire e perciò inesistente era la presenza degli operai.
I rimedi proposti riguardano gli interventi di competenza dello Stato, il ruolo che deve svolgere l’iniziativa dei privati ed i compiti delle categorie sociali, quali le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori.
I compiti dello Stato sono di due tipi: a) “assumere su di sé l’onere totale o parziale di quelle opere per cui facciano difetto o siano insufficienti le forze dell’iniziativa privata. In particolare, dare sviluppo alle opere di bonifica e alla trasformazione degli ordinamenti colturali…….; b) dar vita, mediante una sana legislazione ed una razionale riforma, a tutti quegli strumenti giuridici ed economici che valgano a correggere l’attuale sperequazione del regime di proprietà, ad impedire nel futuro la creazione di monopoli terrieri, e ad assistere la piccola proprietà, i lavoratori e le loro famiglie………”.
I privati, a loro volta, sono chiamati a vincere la passività mediante un impegno diretto nella vita sociale ed economica perchè “non è possibile attendersi tutto dallo Stato”. E perché, inoltre, il “compito dei poteri pubblici non è quello di sostituirsi all’iniziativa privata bensì stimolarla e sorreggerla”.
La “Lettera” termina esaminando il ruolo delle categorie sociali ed affida la conclusione ad una riflessione ricavata dal discorso che il Papa Pio XII aveva rivolto alle ACLI l’11 marzo del 1945. Se l’obiettivo cui pervenire è quello di un nuovo assetto della vita economica e sociale, “è necessario – afferma il Papa – che al di sopra di qualsiasi categoria, al di sopra della distinzione fra datori e prestatori di lavoro sappiano gli uomini vedere e riconoscere quella più alta unità la quale lega tra loro tutti quelli che collaborano alla produzione, vale a dire il loro collegamento e la loro solidarietà nel dovere che hanno di provvedere insieme stabilmente al bene comune e ai bisogni della comunità”.